Dal 1991 al 2000

1994

Desidero chiudere la mia relazione con i doverosi riferimenti alle principali attività e ad alcuni avvenimenti che hanno interessato nell’ultimo anno la città ed il Museo di Taranto.

Fra i mesi di giugno ed agosto, proseguendo in un’intesa con il Comune già avviata da alcuni anni, si sono completati i saggi stratigrafici connessi con i lavori di ristrutturazione del lungomare Vittorio Emanuele III. Anch’essi hanno confermato i dati acquisiti con le ricerche degli anni scorsi per quanto riguarda l’andamento antico della linea di costa del Mar Grande, documentandone, in corrispondenza di piazza Ebalia, un arretramento di circa 30 metri rispetto alla linea attuale, testimoniato nello specifico dalla presenza di opere di terrazzamento e di drenaggio sul banco di roccia, al limite del salto di quota.

Non si sono invece individuate, nell’area dei saggi più recenti, tracce di quel muro in opera quadrata rinvenuto in precedenza al di sopra di una sepoltura tardoarcaica; muro che era sembrato di poter mettere in relazione con le opere difensive dell’abitato, ma al quale, sulla base delle ultime evidenze, va attribuita una diversa funzione.

Sono anche ripresi, nell’ambito del cantiere diretto dalla Soprintendenza per i Beni A.A.A.S., i saggi stratigrafici nell’angolo nord-est del chiostro di San Domenico nella Città Vecchia, che hanno posto in evidenza, a livello di fondazione, il limite meridionale della peristasi del tempio arcaico già noto, fatto oggetto di monumentalizzazione nel corso del V secolo a.C.

I blocchi superstiti sono fondati sul banco di roccia e addossati alla stratificazione preistorica e protostorica, sulla quale sono stati individuati livelli di frequentazione arcaica e resti di strutture tardo-ellenistiche, obliterati a loro volta dalla frequentazione tardoantica e medievale. In quest’ultima fase l’area viene destinata ad usi cimiteriali, in connessione con le vicende, documentate storicamente a partire dal IX secolo, relative alla nascita del complesso ecclesiastico e conventuale di San Pietro Imperiale.

Com’è noto, il complesso di cui parliamo era stato individuato nella scheda del progetto F.I.O. 1986 sul “Recupero, restauro e valorizzazione del Polo museale tarantino” quale nuova più ampia sede per le funzioni regionali della Soprintendenza; ma la disponibilità al suo interno di spazi monumentali ci ha indotto ad ipotizzare per il San Domenico, in alternativa al Castello Aragonese, anche la sede della mostra su Arte e artigianato, che si prevede di realizzare a Taranto l’anno prossimo, con la fondamentale collaborazione finanziaria della Provincia, nell’ambito delle iniziative collegate alla grande mostra veneziana di Palazzo Grassi su I Greci in Occidente.

Il completamento dei lavori nel San Domenico, peraltro ormai prossimo, avrebbe consentito, nelle previsioni del progetto FIO, la disponibilità nella sede storica del San Pasquale di quegli spazi, ora occupati dagli uffici, da destinare invece a funzioni espositive o comunque più strettamente collegate ad un rinnovato allestimento del Museo Nazionale.

Inopinatamente, invece, una deliberazione C.I.P.E. del 16 marzo 1994, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale solo il 5 luglio, ha revocato il finanziamento residuo di undici miliardi, che, per quanto insufficiente a realizzare tutte le previsioni di progetto originarie, avrebbe almeno garantito la realizzazione delle non più differibili opere di consolidamento strutturale e di adeguamento impiantistico. La delibera C.I.P.E., citando non meglio precisate risultanze ispettive, giustifica la revoca, in maniera quanto meno discutibile, col fatto che i lavori nel Museo attenderebbero ancora di essere iniziati e che il relativo progetto sarebbe del tutto difforme da quello originariamente previsto; affermazioni non del tutto infondate, ma che avrebbero quanto meno richiesto una istruttoria più accurata, sentendo anche le valutazioni sia della Soprintendenza per i Beni A.A.A.S. di Bari in quanto titolare della direzione dei lavori sia, soprattutto, di quella Archeologica in quanto proponente e beneficiaria dell’intervento.

Ove le controdeduzioni autonomamente presentate dalle due Soprintendenze non sortiscano effetto, sicuramente grave risulterà il danno non solo per il Museo da un punto di vista culturale e funzionale, ma per la stessa città di Taranto, in un momento particolarmente difficile della sua storia, sia dal punto di vista immediatamente occupazionale, sia per le conseguenze sul mancato indotto economico, che appunto si riteneva di veder discendere dalla rinnovata veste del Museo Nazionale.

Non per questo non sono proseguite, quest’anno, le attività di riordino delle collezioni, in particolare per quanto riguarda le ceramiche di età arcaica e classica comprese nelle Sale dalla VII alla IX. Il lavoro di riscontro fra i materiali esposti e quelli conservati o dispersi nei depositi, quello di ricomposizione dei contesti originari, le stesse operazioni di restauro e documentazione compatibili con la forzata sospensione delle attività ordinarie nei laboratori in attesa dei lavori di messa a norma, tutto è confluito nella mostra Atleti e guerrieri. Tradizioni aristocratiche a Taranto tra VI e V secolo a. C., tuttora aperta al pubblico.

Nella mostra, i corredi delle importanti tombe a camera e a sarcofago, i plastici di alcuni fra questi monumenti, le armature greche di alcune sepolture indigene dell’epoca del grande scontro militare fra Taranto e gli Iapigi illustrano in maniera diretta la cultura materiale del periodo: si segnalano qui soltanto i bronzi dalla tomba Sangiorgio di Ginosa, recentemente restaurati, e la magnifica anfora attica a figure rosse del Pittore di Talos, dalla collezione Rotondo. Allo stesso tempo, le raffigurazioni dei vasi presenti nelle tombe vengono proposte al visitatore come un vero e proprio racconto per immagini dei modelli di comportamento, delle attitudini e delle ideologie di quella società.

Stabilisce uno stretto rapporto fra le attività svolte nel Museo e quelle di tutela condotte nella città la cosiddetta Tomba degli Atleti, tuttora conservata, con accesso da via Crispi 2, al piano terra dell’ex Scuola Media Mazzini, il cui edificio è oggi occupato dalla Scuola Media Bettolo e dall’Istituto Tecnico Archimede. Mentre un plastico ad essa relativo ed i suoi ricchi corredi sono ora esposti nella mostra Atleti e guerrieri, la ripulitura del vano che la accoglie, dopo anni di abbandono, e la stessa sistemazione del monumento sono stati compiuti grazie alla convergenza delle risorse e delle volontà sia della Soprintendenza sia del mondo della scuola, ed in particolare del Liceo Ginnasio Archita.

Di tutto rilievo sono le altre iniziative e le ulteriori scoperte aventi ad oggetto l’immensa necropoli tarantina. Mentre, infatti, esce per i tipi della Colomba il terzo volume del Catalogo del Museo Nazionale Archeologico di Taranto 30, dedicato appunto alle problematiche e ad alcune classi di materiali ad essa relativi, diversi sono i rinvenimenti isolati che hanno ulteriormente contribuito a raccogliere informazioni sullo sviluppo dello spazio urbano destinato alle sepolture.

Si segnala fra le altre la scoperta di una tomba a camera di età arcaica, di cui è stata rinvenuta e lasciata in situ una colonna di ordine dorico, nell’ambito dei lavori di ristrutturazione del piano terreno di un immobile in corso Umberto 117 (attiguo all’E.P.T.). Tale rinvenimento si aggiunge all’esiguo numero finora noto (solo sei) di ipogei di età arcaica, tutti concentrati nel Borgo, e quindi in aree necropolari destinate a trasformarsi in quartieri abitativi in seguito alla ristrutturazione urbanistica avutasi nel V secolo a.C.

L’intervento, comunque, che dalla fine di luglio va assorbendo su Taranto le nostre maggiori energie e risorse, suscitando anche insolito interesse e grandi aspettative nell’opinione pubblica, è rappresentato da un cantiere di via Marche, in prossimità del Palazzo di Giustizia 32 (tavv. XLIX-L).

Qui, a seguito dell’avvio di lavori che prevedevano la realizzazione di box privati nel sottosuolo, con la conseguente restituzione a parcheggio pubblico della superficie, sono subito venute in luce alcune sepolture, confermando l’utilizzazione dell’area in età greca come necropoli, peraltro già ipotizzabile sulla base dei rinvenimenti noti dalle zone limitrofe. Le indagini tuttora in corso, consentite dalla sensibile disponibilità dei proprietari anche nelle more dell’istruttoria del decreto ministeriale di occupazione temporanea, hanno permesso di individuare finora più di cinquanta sepolture riferibili ad uno dei settori più rappresentativi della necropoli di età ellenistica, con tracce di frequentazione, prevalentemente funeraria, già a partire dalla prima metà del VI secolo a.C.

La documentazione più antica, infatti è costituita da alcune sepolture relativamente isolate (tombe 8, 10, 11, 40) all’interno dei nuclei omogenei più recenti, inquadrabili fra il secondo venticinquennio del VI ed i primi decenni del V secolo a.C., con materiali di importazione corinzia, ceramica attica a figure nere ed elementi in faïence tardo-arcaici.

Ancora in età tardo-arcaica si deve collocare una frequentazione dell’area connessa ad attività artigianali. In una fossa scavata nella roccia, infatti, sono stati recuperati, in giacitura secondaria, insoliti residui di lavorazione dell’osso per placchette ed elementi torniti, abbandonati con ceramica acroma, attica del V secolo a.C. e frammenti di terrecotte votive; fossa tagliata nella seconda metà del IV secolo da una sepoltura (la 29) ricavata nella stessa roccia, con fossette angolari per l’alloggiamento del letto funebre.

La riorganizzazione urbanistica che interessa la città nei decenni centrali del V secolo a.C. coinvolge anche quest’area. La creazione di un tessuto viario ortogonale si estende alla necropoli; cosicché in via Marche si è individuato l’incrocio fra due strade, l’una nord-sud ampia circa 7 metri e l’altra est-ovest, larga oltre 10 metri e da identificare con una vera e propria plateia, che delimitano (per quanto appare finora nel cantiere) due isolati paralleli, che sono stati occupati progressivamente da lotti familiari di deposizioni, con continuità fino allo scorcio del III secolo a.C.

Nell’ambito dell’isolato più orientale, che ricade nell’area di cantiere solo per una piccola parte, sono state messe in luce sei tombe allineate sul bordo della strada nord-sud, tre a fossa in roccia (12, 17 e 18) e tre a camera con kline intagliata, stuccata e dipinta (13, 14 e 15) (tav. G,1), le cui porzioni superiori e le cui porte, originariamente realizzate in blocchi, risultavano asportate già in antico. Tutte, (ad esclusione della 18) hanno restituito tracce o cospicui resti del corredo, che permettono di datare questo lotto tra la fine del IV e tutto il III secolo a.C.

Nell’altro isolato, il lotto più antico comprende tre tombe a sarcofago o a fossa databili ancora entro il V secolo a.C. (4, 6 e 7); gli altri lotti, contigui fra loro ma ben riconoscibili planimetricamente, sono stati invece utilizzati tra la metà del IV e la fine del III secolo a.C., evidentemente sino alla conquista romana della città nel 209 a.C. Essi comprendono tombe a sarcofago, a fossa ricavata nella roccia, terragne, o rivestite di lastre di carparo, generalmente caratterizzate da una controfossa, con doppio lastrone di copertura a superfici piane o a spioventi. Si tratta in prevalenza di tombe a inumazione monosome; ma sono anche attestati casi di riutilizzazione, con le ossa delle deposizioni più antiche raccolte all’interno della tomba in giacitura secondaria.

Particolare segnalazione merita il nucleo familiare (tav. G,2) costituito da due sarcofagi di carparo (tombe 39 e 42) e da un’incinerazione entro un’olia fittile (43) alloggiata in una fossa ricavata nella roccia fra i due sarcofagi. Sono state altresì riscontrate cremazioni in fosse terragne o tagliate nel banco, comunque contemporanee alle inumazioni.

Nel settore più orientale dei lotti che prospettano sull’asse viario nord-sud, al limite dell’area di cantiere, a seguito di un’interferenza con i lavori di palificazione perimetrale condotti dalla proprietà, si è esplorata con un intervento di emergenza una tomba a camera (la 16) costruita in opera quadrata, databile intorno alla metà del IV secolo a.C., con kline centrale sulla quale erano i resti di un inumato e corredo comprendente oinochoai apule a figure rosse.

Immediatamente a sud di tale tomba e in allineamento con essa, è appena stata individuata un’altra tomba a camera tipologicamente affine (la 50), anch’essa con una inumazione deposta su kline centrale e databile intorno alla metà del IV secolo a.C. sulla base del corredo, costituito da ceramica a vernice nera ed a figure rosse, fra cui una oinochoe con soggetto fliacico, nonché da due fibule in argento e dalla valva di una conchiglia con resti di ocra, che denotano la deposizione come femminile.

Occupano l’angolo dell’isolato anche due tombe a camera (20 e 21), affiancate e contemporanee, accessibili da est attraverso un dromos a gradini ed uno a scivolo intagliati nella roccia.

Entrambe presentano una kline lungo la parete meridionale, con piedi intagliati e resti dell’intonaco di rivestimento nonché, in un caso, chiari segni di ampliamento del piano deposizionale.

Nonostante che entrambe avessero subito già in antico lo spoglio delle parti in elevato della camera funeraria e delle porzioni costruite della kline, nonché del monumento funerario esterno, di cui si sono rinvenuti pochi elementi intagliati in pietra tenera locale e in pietra di Carovigno, il corredo ceramico e parti delle deposizioni erano ancora in situ, documentando l’utilizzo delle strutture fra l’ultimo venticinquennio del IV ed il III secolo a.C.

La rilevanza di quanto si è finora rinvenuto ci induce a ritenere, senza ombra di dubbio, che le indagini dovranno estendersi a tutta la superficie del cantiere, al fine non solo di completare il quadro conoscitivo archeologico, ma anche di verificare le possibilità di utilizzo dell’area, sia allo scopo di precisare meglio i nostri obblighi di tutela sia per avanzare meditate proposte per una effettiva e realistica valorizzazione di quanto è venuto o verrà alla luce. Più che invocare genericamente la realizzazione di un parco archeologico, che ci sembra del tutto improponibile secondo le formule abituali in un ambito urbano degradato, la Soprintendenza archeologica propone piuttosto la ricerca di un’intesa con l’Ente locale che, attraverso l’adozione di ogni possibile variante allo strumento urbanistico e nel rispetto delle legittime aspettative della proprietà, recuperi questa irripetibile occasione di salvaguardia del patrimonio archeologico cittadino in un sano e meditato rapporto fra costi dell’oggi e benefici del domani.

GIUSEPPE ANDREASSI